Cima Scotoni
Via dei Fachiri
Ripetizione M. Dall'Argine M. Bologna 01/07/2022
Nel Gennaio del 1972 viene aperta sulla parete sud ovest della cima Scotoni la “Via dei fachiri”. Pochi chiodi, pochi cunei di legno e pochi viveri: è in questa sorta di astinenza che pare risieda il significato del nome della via. Per Enzo Cozzolino, come ricorda il compagno di cordata Flavio Ghio, montagna significava libertà. Relazioni “oracolari” e schizzi artistici caratterizzavano le sue salite. Egli sognava una parete ideale, compatta a tal punto da respingere i chiodi e richiedere una scalata veramente “libera”. E’ un discorso interrotto in giovane età ma non è un discorso che è passato inosservato. Come possiamo noi, da queste premesse, avvicinarci ad una via di Cozzolino con la certezza di essere preparati ed in linea con questi pensieri? Questa domanda è forse posta su una convinzione errata, ovvero la convinzione che io e Mauretto Bologna abbiamo effettivamente ripetuto la via dei fachiri: almeno in parte non è così. Quella di oggi è la via dei ripetitori come ci ricorda Flavio Ghio; un lungo ed espostissimo traverso ha fatto gola a tutti quegli alpinisti che non sono riusciti a passare dove il grongo è passato. Per confermare che questa via, punta di diamante della ribellione contro le vie “a goccia d’acqua”, sia il mitico VII grado, bisognerebbe attendere che qualcuno salga verso l’alto senza rimandare in quel traverso l’inevitabile ascensione che qualsiasi montagna ci invita a fare. Come ci ricorda Spiro Dalla Porta Xidias in effetti, l’ascensione diventa ascesi e la montagna è la terra che ci suggerisce di salire verso il cielo.
Il grongo ha fatto pochi metri e poi, in direzione della fessura gialla ha cominciato a salire la sua parete ideale, con la corda che penzolava nel vuoto ed il compagno che afferma di essersi sentito solo e di aver voluto chiudere gli occhi prima di vedere lo zaino recuperato dall’alto penzolante nell’aria.
E’ il 30 giugno, sono stato teso durante il viaggio e sono teso durante l’avvicinamento. Per me questa via ha un significato speciale, un significato quasi patriottico essendo triestino, mi ci sono appassionato e voglio entrare nella mente dei due apritori. Ma se io e Mauretto non fossimo abbastanza? Abbastanza per cosa si chiederebbe il lettore. Io rispondo che ripetere una via su una grande parete significa per me sia allinearsi col pensiero dell’apritore, che corteggiare una bellissima montagna. Riuscire in un’impresa non significa aver vinto prestigio, notorietà, fascino o dimostrare di essere forti; significa girarsi verso una parete tanto bella e veder germogliare dentro il pensiero che di lì siamo passati, siamo stati accettati con la nostra umiltà e la nostra preparazione. Una visione un po’ romantica forse ma è ciò che sento.
Capanna alpina, rifugio Scotoni e su verso il Lagazuoi. L’aria è fredda e soffia una leggera brezza. Nonostante tutto sia calmo ed il tempo sia sospeso, io sono preoccupato. Continuo a pensare a quelle zone d’ombra lungo alla via, alle eventuali ritirate, a cosa ci saremmo trovati ad affrontare lungo un traverso non chiaro sia come lunghezza che come difficoltà. Addirittura penso con malinconia che per percorrere questo viaggio abbiamo rinunciato alla festa di fine corso del C.A.I., appuntamento goliardico dai toni allegri e spensierati. Forse questo non è il giusto stato d’animo per scalare ma noi ci avviciniamo a quel muro giallo e pian piano cominciamo a riconoscerne ogni asperità: ecco la prima cengia ad un certo punto interrotta da gialli strapiombi, ecco il pulpito del fachiro a destra, ecco la fessura gialla ed il traverso, ecco la seconda cengia. Mi dico: “sarà lungo la salita che senza vergogna valuterò il mio stato d’animo e ne trarrò conclusioni con Mauretto”. Ci leghiamo in silenzio sotto la fascia di placche nere sulla verticale del pulpito in attesa della verità: come mi sentirò quando comincerò a salire? Mi sono sentito bene. La roccia ancora in ombra è fredda e la sensazione di aderenza di mani e piedi è totale. Sento che dopo le ultime intense settimane di corsi ed allenamenti il recupero muscolare (soprattutto delle gambe) è andato a buon fine. La roccia inoltre è di buonissima qualità, porosa e solida, ricca di asperità (caratteristica che non si può dire sia tipica della parte alta della via). Alla seconda lunghezza tiro dritto per quasi 60 metri sostando su due nostri chiodi (uno dei due è rimasto in loco) e tocca a Mauretto il difficile tiro che ci separa dal diedro/camino del pulpito del fachiro che sarò io a salire. Qui sopra posso contemplare a sinistra l’impressionante parete aperta sopra alla quale dovremo traversare. Riusciremo a riposare lo sguardo senza che si perda nel vuoto? Noto anche due minuscole figure salire lungo la vicina Lacedelli. Saliamo ancora senza via obbligata, accettiamo l’invito della roccia seguendo infine un canale nerastro ed appoggiato che ci porta proprio al principio della misteriosa e lunga traversata. Ci fermiamo un istante. Qui cominciano le difficoltà! Questo è il nostro checkpoint, isolotto felice perpendicolare ad un mare giallo e verticale. Ci riposiamo un momento mentre guardiamo la sottile cengia che diventa cornice e si perde nella parete. E’ laggiù che pare Cozzolino abbia tirato dritto ad un certo punto: inconcepibile. Di lì a poco avremmo constatato non solo l’intuito ma anche la tempra di un uomo fuori dall’ordinario. Mauretto comincia a muoversi lungo la cornice e salta due incomprensibili soste: mi consola che voglia continuare ed evitare un secondo tiro in traverso di una lunghezza spropositata. Ad un certo punto comincia a salire e non certo con una ferrea convinzione. Dice di seguire alcuni chiodi e si ferma a leggere una relazione. Ogni tanto sono io, al seguito di un’asola e contro – asola a leggere un altro foglio nella speranza di essere illuminato. Ecco che perso dietro allo spigolo mi dice di aver trovato qualcosa e comincia a recuperarmi. Ero molto teso mentre arrampicavo e constatavo la difficoltà del tiro (sicuramente di VI grado). Giunto in sosta noto che siamo proprio sopra a dove la prima cengia si interrompe e lo sguardo cade per centinaia di metri sino alla base della parete. Sono molto concentrato e valuto assieme a Mauretto che la sosta sulla quale siamo non è esattamente un bell’ancoraggio: un paio di chiodi accoppiati che pare vadano bene, una clessidra minima ed un nut martellato e orribilmente masticato dentro ad una fessura; più avanti una grigia tabula rasa, nessun chiodo, nessun riferimento. Una relazione che abbiamo in mano fa però riferimento a questa sosta e così, accettando l’inevitabile, comincio a muovermi verso sinistra in netto traverso. E’ difficile e continuo, i movimenti estetici, la roccia buona e l’esposizione grande.ma niente da mettere. Noterò solo il giorno dopo che in quei momenti la mia mente era completamente assorbita dal gesto, tutto il mio mondo si riduceva a movimenti il più solidi e precisi possibile, ad appigli da verificare insistentemente ed appoggi minimi: cadere non era contemplabile. Trovo un buco e ci infilo un friend sul quale non mi ci sarei appeso e proseguo nella speranza di trovare una risposta. Dopo circa 35 metri di distanza da Mauretto noto sotto i piedi a circa 4/5 metri un grosso chiodo e decido di disarrampicare quel difficile tratto per raggiungerlo. Trovo così una sosta, due buoni chiodi vicini a un quarto di lunghezza di un netto diedro giallo fessurato e sguarnito. A destra ecco comparire una fila di chiodi e cordini. Insomma il traverso giusto era decisamente più in basso. Mauretto si trova a circa 40 metri da me, circa 5 metri più in alto e a separarci un solo friend. Il mio compagno pensa subito ad una soluzione. Sarebbe stato impossibile affrontare da secondo quel traverso: tolto il friend, un volo (sia a corda bloccata che con mezzo barcaiolo) sarebbe stato inaccettabile. Arrampica calmo con lo zaino addosso e raggiunge il friend. Lo toglie e torna indietro raggiungendo di nuovo la sosta con nut martellato. A questo punto lo calo su una sola mezza corda di circa 5 metri facendolo raggiungere la mia altezza e facendogli scoprire di trovarsi ora su una linea più accettabile e chiodata. Raccolgo la mezza corda ora slegata dal suo imbrago e comincio a recuperarlo piano. Saggiamente decide, previa valutazione, di “azzerare” i passaggi per evitare un lunghissimo pendolo. Vedendolo prossimo alla sosta sento un’irrefrenabile voglia di afferrarlo con le mani o se non altro di offrirgli una mano per farlo arrivare da me ma ovviamente non serve a nulla: è già arrivato. Siamo provati, stanchi e un po’ scossi. Non se ne parla di tornare indietro e ripercorrere il traverso, la sola direzione, verificata la nostra corretta posizione sulla via, è verso l’alto, verso quella fessura gialla ormai evidente. Siamo sulla strada giusta e dobbiamo solo concentrarci consapevoli però di aver perso tanto tempo nella manovra. Mauretto decide di non scalare il difficile diedro ma in riferimento ad alcuni schizzi, aggirarlo sulla sinistra per poi tenerlo sulla propria destra e sostare in cima. Proseguo con un tiro verticale dal sapore di V grado e sosto sotto la difficile fessura gialla strapiombante che affronterà Mauretto in elegante arrampicata libera. Un altro timore però ora è rappresentato dal cielo che comincia a scurirsi e da alcune gocce che cominciano a bagnare la roccia. Cerco di accelerare, superato il difficile tiro non ci diamo il tempo di riposare: è un tuono lontano a sancire l’obbligo di muoversi senza indugio. Raggiungo a destra un breve tettino che le gocce scendono più abbondanti. Protettomi adeguatamente mi alzo con vigore e mi faccio tradire da un chiodo e un cordino bianco sulla sinistra. Cerco di scavalcare il muro in quella direzione notando che il passaggio è molto difficile ma sentendo anche di essere vicino al chiodo poco di sotto. Questo fatto unito alla pioggia sembra dirmi che è lecito provare e non indugiare, situazione ben diversa dal sottostante traverso. Ad un certo punto l’appoggio sinistro si sbriciola ed io cado, se non altro di poco, sull’imbrago. Sono lucido e sto bene e rimando le lunghe riflessioni su quanto accaduto. Mi tiro su e dopo poco riprovo il passaggio ignorando che sulla destra sarebbe stato più semplice. Lo supero e ormai sotto la pioggia copiosa traverso a destra nettamente sino al poco distante terrazzino aereo. Recuperando Mauretto penso insistentemente a quanto accaduto: vietato cadere. Quando ci leghiamo con un compagno firmiamo una sorta di tacito contratto, mettiamo in conto che qualsiasi cosa possa succedere e che siamo disposti a condividerla con quella persona speciale. Mi dico ancora nella mente che cadere non è contemplabile e dentro di me ammutolisco subito dopo. E’ il mio amico a consolarmi e a farmi notare che manca poco. Tira dritto saltando una sosta su due clessidre poco sopra e sosta più in alto senza percorso obbligato. Parto io per l’ultimo tiro di una quarantina di metri e mi sembra di esserci stato un’eternità stanco psicologicamente e fisicamente com’ero. Trovo un chiodo dove la parete irregolarmente si abbatte e noto sulla sinistra quella che sembra una traccia lungo la porzione di rocce sommitali della cima Scotoni. Mauro arriva e come in una fiaba la pioggia lascia spazio al tepore del sole: l’emozione è indescrivibile. I pensieri nuvolosi lasciano anch’essi lo spazio ad una selvaggia gratitudine. In un abbraccio concludiamo la via dei fachiri.
Siamo stanchi e la discesa un poco ci pesa sui piedi. Lungo la cengia verso il versante nord e quindi dentro al canalone tracciato comodamente, scendiamo senza difficoltà. Al lago sotto la parete mettiamo i piedi in ammollo e non ci preoccupiamo del cielo nuovamente nuvoloso. In silenzio guardiamo il maestoso muro della cima Scotoni.
Mauro Dall'Argine