Algeria - Hoggar Tesnou

ALGERIA, SABBIA E MONTAGNE

Odo il contraccolpo della carlinga quando le ruote toccano l'asfalto della pista e il forte rumore dei reattori lottare contro l'aria per decelerare il velivolo. Sono nuovamente a casa.

Quanto in fretta sono volati questi giorni, tutto è passato ormai: l'Algeria, la nostra campagna alpinistica; tutto un solo vivo ricordo. Eppure, come spesso accade, sembrava ieri quando siamo arrivati a Tamanrasset sul confine dell'immensa distesa del deserto algerino.

Tamanrasset, nome gentile di un mondo nuovo, completamente sconosciuto, che stavamo per affrontare. Scesi dall'aereo ci guardavamo in giro, con curiosi occhi di bambino, capaci di assimilare i particolari più insignificanti e per questo tanto più importanti, mentre un'atmosfera ventilata e calda ci avvolgeva.

Tamanrasset: il mio sogno si è avverato. Lo stesso, probabilmente, di molti alpinisti. Provare nuove emozioni, scoprire nuove montagne al di fuori di quelle di casa propria, muniti di una sacca colmata con le esperienze accumulate in anni di arrampicate in Val Rosandra, sulle cime delle Alpi Giulie e su quelle dolomitiche. Ora serviranno, insieme a tutta l'attrezzatura alpinistica che portiamo in spalla, ad affrontare un’incognita di montagne totalmente sconosciute perché l'amore per la montagna, che ti avvince e ti coinvolge, da solo non è sufficiente. Qui avremo modo di misurare la nostra maturità, servendoci di tutte le nostre esperienze avute.

Tamanrasset: qui comincia la nostra avventura alpinistica, nel nome e nel ricordo di Emilio Comici, colui che con il suo amore per la montagna, sessant'anni fa, progettò la prima scuola di arrampicata. Noi siamo qui oggi a celebrare questo ricordo e mantenere vivo l'ideale che unisce tutti coloro che sono e saranno alpinisti.

Siamo riusciti a noleggiare due jeep, trattando sul prezzo come qui è consuetudine, in un francese approssimativo, arricchito da vocaboli presi a prestito da lingue diverse. Per fortuna sia Marco sia Stefano il francese almeno lo capiscono, anche se i Tuareg non parlano proprio l'idioma parigino.

Al mattino presto due Toyota, equipaggiate con taniche d'acqua, benzina e viveri per diversi giorni, ci aspettano con le guide davanti all'ingresso dell'albergo.

Finalmente si parte: lasciamo l'ultimo lembo di civiltà e pieni di entusiasmo ci inoltriamo lungo la pista sahariana per raggiungere il nostro primo obiettivo: la base del Tezouiag, nel gruppo dell'Atakor n Ahaggar. Per tutto il giorno siamo stati sballottati sulla pista desertica, infine si raggiunge il nostro primo campo base. Gli sguardi sono subito rivolti alla montagna.

Il Tezouiag, come gli altri toccati nel nostro itinerario, è un monte formato da rocce vulcaniche effusive, consolidatesi prevalentemente in lunghe colate cilindriche che formano splendidi diedri e camini.

E’ tutto così diverso dal calcare e dalla dolomia su cui noi siamo abituati a salire. Su queste rocce l'arrampicata è sempre atletica ed elegante. Ci immergiamo nella consultazione dell'unica guida esistente sulla regione dell'Hoggar. Gli itinerari possibili sono numerosi; dai più facili ai più impegnativi: Fantastichiamo sulla salita da farsi all'indomani e sull'itinerario che si è scelto.

Alla sera, accanto al fuoco che scoppietta, dopo il tè bevuto con gli amici ed esserci scambiate le ultime battute di spirito, si va a dormire.

Infilato, come gli altri, nel mio sacco a pelo, non riesco ad addormentarmi. Ascolto il silenzio che viene dal deserto e mi sento circondato da presenze misteriose ma vive, che sono li, oltre il cerchio illuminato dal fuoco, tra le rocce e le pietraie; vive come le esili piantine che lottano per la propria sopravvivenza. Contro il riverbero del fuoco, girando la testa, scorgo le ombre immobili dei due Tuareg. Nei loro volti scuri e nei loro occhi profondi ho scorto il riflesso del deserto prima ancora che cominciassimo il viaggio. Ho capito che soltanto a contatto con queste genti puoi forse penetrare lo spirito di questo paesaggio dilatato su orizzonti enormi. Vivendo simili esperienze impari a scoprire la bellezza in ciò che sta nascosto. Il deserto bisogna viverlo senza avere fretta. Con questo pensiero mi addormento.

Quando affronti per la prima volta una montagna sconosciuta, lungo una «via» che forse sarà più impegnativa di quanto immagini, si provano strane sensazioni. Inconsciamente ti auguri che accada qualche evento naturale che non consenta la scalata. Così hai la coscienza a posto e nessuno ti viene a dire che hai rinunciato per paura. Ma qui, pioggia, fulmini, grandine e altri fenomeni metereologici non capitano, perciò al mattino ci si prepara per la scalata. Poi l'entusiasmo e la voglia di conoscere queste nuove montagne fugano ogni ombra e ogni paura.

Sul Tezouiag abbiamo arrampicato per tre giorni. Uno stupendo paesaggio verticale che ha saziato ampiamente la nostra voglia di salire e che ci ha ripagato dei disagi del viaggio per raggiungerlo.

Ci siamo poi spostati sotto l'Illamane, cima che le nostre guide chiamano il «Maschio dell'Algeria» per la sua forma significativa. L'abbiamo salito lungo un itinerario che rappresenta la via classica. Il monte comunque non offriva molte possibilità perché le sue rocce sono poco solide.

Di nuovo in viaggio, lungo le piste desertiche, con una tappa ai bordi di un'oasi, per portarci nel gruppo del Tesnou. Quando si parla di deserto s'immaginano sabbie e dune, ma noi nei primi giorni abbiamo visto solo pietraie e polvere. Ma in questa nuova zona la sabbia c'è davvero e la sua distesa ondulata fa da cuscino alle montagne: una fila di cime a mammelloni, con le sommità arrotondate e la roccia limata e levigata dall'azione erosiva della sabbia trasportata dal vento. Si avverte maggiormente il caldo che però non opprime perché l'umidità è molto bassa, circa il 25 % e, seppure caldo, spira sempre il vento che ti asciuga il sudore.

La zona del Tesnou è praticamente ancora tutta da scoprire: pareti inviolate che attendono gli alpinisti in cerca di nuovi orizzonti di cui aspirare il profumo.

Nei due giorni che abbiamo trascorso qui, animati dallo spirito di conquista, abbiamo attaccato una via bellissima, iniziata in fessura e che sboccava poi in un camino: un'arrampicata leggera, in aderenza. Eravamo contenti per quella prima appena tracciata, sulla quale avevamo lasciato i segni del nostro passaggio che forse qualcuno troverà, chissà quando.

Abbiamo voluto doppiare la vittoria, aprendo un altro itinerario su una cima attigua: ormai ci sentivamo quasi di casa e psicologicamente pronti a superare tutte le difficoltà.

Purtroppo quelli, invece, erano gli ultimi giorni. Lo sentivamo perché sempre più prepotentemente sentivamo la nostalgia del buon cibo italiano. Sognavamo di fare lauti banchetti, con le buone pietanze preparate dalla mamma e di bere enormi boccali di birra ghiacciata, mentre si brindava alle nostre vittorie con un sorso di tè perché l'acqua era razionata.

L'ultima sera trascorsa nel deserto, accanto al fuoco, il pensiero del ritorno era ormai dominante nei nostri discorsi. Eravamo tutti soddisfatti della nostra avventura alpinistica nell'Hoggar, delle salite fatte, dell'aver vissuto intensamente quelle giornate. E nella mente ognuno di noi cominciava a mettere ordine nei propri ricordi per poi riporli come tesori nel cuore.

Avevamo scalato montagne, visto altri orizzonti schiudersi sotto di noi, avevamo gioito ancora una volta per l'ascensione compiuta.

Ancora una volta ci eravamo divincolati dal mondo egoistico degli uomini per entrare in una dimensione forse più umile ma più vera. Però c'era ancora una montagna da scalare e un'altra ancora, in una ricerca senza fine, forse di un paradiso che non esiste in terra ma che le cime delle montagne indicano essere lassù, dove più vivide brillano le stelle: le stelle del deserto algerino.

Da “ALPI GIULIE 1990 84/1”

Siro Cannarella