Via Don Quixote

Marmolada d'Ombretta

Via Don Quixote  26/06/1979

900 m  VI+ (VI/A0)

Ripetizione M. Dall'Argine E. Dreolin 12/8/2021 

 

La prima volta che ho visto la mitica parete sud della Marmolada ero in vacanza sulle pale di San Martino. Salivo con le ciaspole in direzione val Venegia dove incombono sopra la testa il Cimon della Pala e la Vezzana. Ecco comparire lontana, con un cappello di nuvole scure, una parete lucente che si staglia dal suolo e tocca il cielo con una corona di guglie e torrioni acuminati, corona degna di una regina in effetti. Potrebbe sembrare, per qualche appassionato dell’universo del Signore degli anelli, il muro dove si erge il nero cancello di Mordor, o ancora uno specchio d’argento spezzato all’estremità.  E’ curioso poi che la sua roccia non sembra far parte di nessun contesto dolomitico: circondata dal colore giallo/rosa dei suoi “sudditi”, lei splende grigia e compatta come la luna. Non c’è da stupirsi che questo muro abbia attirato quei nomi incastonati nella storia: Messner, Vinatzer, Mariacher, Manolo..

Ed è proprio in un periodo di grandi perturbazioni sentimentali che io ed Euge abbiamo qui realizzato una salita grandiosa. Non ho comunque considerato nemmeno per un momento questa scalata come un antidoto o la risposta all’utopica ricerca della felicità. E’ un momento che ci avvicina al mondo metafisico, un po’ come la compagnia di una persona che ci fa dimenticare dello scorrere del tempo, muove i sentimenti verso l’alto e compare nella testa quando in alto ci stiamo e abbiamo paura.

Chiunque percorra la Don Quixote, realizzazione di Heinz Mariacher e Reinhard Schiestl negli anni ‘70, non può che sentirsi anch’egli un cavalleresco alpinista che combatte personali battaglie. Uno sviluppo di circa 900 metri per un totale di 23 lunghezze di corda sono il viaggio che ci separa dalla base a questa panoramica guglia tondeggiante, molto estetica, facente parte della punta Ombretta. Zaini “precisi” in spalla e da località Malga Ciapela partiamo spediti verso il Falier, famoso rifugio messo a disposizione di tutti coloro s’incantino dinnanzi alla parete d’argento. Ci fermiamo spesso a contemplare il muro che va formandosi sopra le nostre teste e i nostri pensieri sono cullati dai campanacci delle mucche. Incrociamo sui prati Tom e Will, i due simpatici inglesi con cui condivideremo cena, dormitorio e prima parte della via. Arrivati affamati al Falier, sia di polenta che della roccia della Marmolada ovviamente, salutiamo un bel gruppo di ragazzi carichi di materiale d’alpinismo e avremmo scoperto di lì a poco quale fosse il loro vertiginoso livello: chi è lì per aprire una nuova via e chi per ripetere linee di prestigio come Bruderliebe del grande Hansjörg Auer. Euge esprime sia il suo entusiasmo per il nostro obiettivo attuale che la convinzione che difficilmente nella nostro percorso d’alpinisti avremmo mai potuto raggiungere quei mostri sacri. Ma questo ha importanza? Ognuno vive la salita più o meno intensamente e ciò che sente lungo la strada sarà sempre qualcosa di interamente suo, intoccabile ed ineguagliabile, come un sogno, sembra quasi una frase di Albus Silente.

Ad ogni modo, la Don Quixote è una via dai numerosi passaggi di sesto grado ed il tiro chiave, variante non originale, è di sesto superiore o A0 (ho sentito dire che sia una variante del grande Alessandro Gogna ma potrei sbagliarmi). Quando Mariacher in una giornata nuvolosa stava per ripetere la Vinatzer assieme alla sua compagna Iovane e Schiestl, notò ad un certo punto il pilastro sopra la cengia mediana liberarsi dalle nuvole. Così, con l’uso ridottissimo di chiodi decise di attaccare la parete ed aprire questo capolavoro manco fosse un bimbo che si diverte al parco giochi. Qualche anno dopo la ripeterà in solitaria.

Ci svegliamo alle 4.00 del mattino e facciamo colazione in cambusa assieme a tutte le cordate. Siamo forse gli ultimi ad uscire alle 4.30 ed ecco le prime difficoltà: qualcuno ha scambiato le scarpe di Euge con le proprie. Euge si ritrova con il suo stesso modello di scarpe d’avvicinamento ma ben di 2 numeri in meno. Siamo furibondi e frustrati. Cominciamo una corsa vigorosa in direzione delle torce più in alto nella speranza di raggiungere i ragazzi e chiedere loro informazioni ma questi sono ormai irraggiungibili e decidiamo così di rinunciare. Secondo problema: la corsa sfrenata ci ha fatto praticamente perdere al buio e, trovato l’attacco, abbiamo davanti una bella coda di alpinisti. Sono tutti estremamente cordiali e riposati, noi invece sudati dalla testa ai piedi e molto nervosi. Quando cominciamo ad arrampicare però l’umore cambia. Evitiamo la strategia di molte cordate di fare le prime lunghezze in conserva e sono fiero del fatto che assieme scivoliamo bene sulla roccia e riusciamo addirittura a superare Tom e Will che si muovevano proprio utilizzando la conserva. Non li avremmo più visti, nemmeno dal pilastro della parte superiore della via: è probabile si siano ritirati.

La prima parte della salita, ovvero quella fino alla grande cengia mediana, è scorrevole ma presenta alcune sporadiche difficoltà di V grado con un impegnativo passaggio di VI sul finale; c’è da prestare attenzione alla gran quantità di soste in loco che possono portare a numerose involontarie varianti. Mentre siamo alla vista del gigantesco placcone proprio sotto la cengia mediana possiamo apprezzare l’ambiente della Marmolada veramente, con il suo candore, il suo freddo mattutino e le sue forme. Alla mia sinistra vedo anche la famosa nicchia a forma di pesce della mitica Weg durch den fisch: che emozione!

Ben sulla destra della grande placca superiamo il difficile camino con successivo delicato traverso, tiro chiave della prima parte, evitando di affrontare il camino per intero, che ci guarda minaccioso con i suoi cordini penzolanti. Usciamo sulla cengia notando di essere ben in anticipo sulla tabella di marcia, il sole scalda moltissimo e salire all’attacco del pilastro finale sembra più complesso che arrampicare in verticale. La faccenda non è facile e non lo sarà per i prossimi 13 tiri: vedo Euge stanco e lo sono anche io, cosa che dovrebbe giustamente impensierirmi. Appena partiamo e superiamo la “barriera” dei primi tre tiri però, comincia per me un conto alla rovescia mentale che mi porta a puntare verso l’alto più che cercare periodicamente punti di ritirata. Non è solo l’avvicinarsi della cima, e ahimè delle difficoltà, a farmi star bene è l’ambiente straordinario che ci circonda: scaliamo uno scivolo grigio che pare la lingua mastodontica di una divinità. Da non sottovalutare il tiro in strapiombo di V+ in uscita dalla grande nicchia di destra, tiro ben chiodato ma molto fisico. Lunghezza dopo lunghezza veniamo avvicinati da una guida con cliente velocissimi che non appena la salita comincia a farsi più verticale condividono con noi parecchi tiri, un po’ davanti ed un po’ dietro. Quando ci superano definitivamente è la volta del tiro chiave che purtroppo non ho liberato sentendo il penso dello zaino e, devo ammetterlo con stupore, un po’ di rarefazione dell’aria vista la quota. Il meteo muta continuamente: si passa da un freddo minaccioso al tepore del sole, le nuvole si muovono velocissime e spesso ci attraversano rendendo il panorama un denso latte luminoso. Appeso al penultimo tiro tra due grattacieli di pietra aspetto euforico Euge rendendomi conto che ci manchi veramente poco. Sale ora lui su quello che dovrebbe essere l’ultimo tiro e non appena comincia a recuperarmi dall’alto, sento un vento familiare, vento da nord che scavalca punta Ombretta, vento di verticalità che va abbattendosi gradualmente. Ricongiunti ci stringiamo forte in un abbraccio sentito e pieno di ammirazione reciproca: al culmine del nostro viaggio, sopra le fatiche. E quel vento ora soffia forte e freddo dal ghiacciaio, pulisce le nuvole e ci svela il Sassolungo, il Boè, le Tofane, il gruppo di Fanis, una nord del Civetta da poter stringere nel pugno, il Pelmo e l’Antelao. Non resisto e tutti i nodi in gola di questo periodo si sciolgono in un pianto vigoroso che Euge cerca di immortalare con la macchina fotografica in mezzo alle mie risate e tentativi di nascondermi. Mi ripete che è bello io sia così ma io non ci credo molto: quello che credo senza dubbio è di amare da impazzire tutto questo.                         

                                     Mauro Dall'Argine