Via Comici Dimai

Cima grande di Lavaredo

Via Comici Dimai

Ripetizione di Mauro Dall’Argine e Stefano “Batto” Batticci 04/08/2022

 

Ho cominciato a pensare a questa via quando ancora non capivo a cosa servissero le corde appese agli zaini di quei personaggi mitici che salivano al Locatelli sotto il peso di tanti occhi curiosi. Erano veramente fighi: noi andavamo al rifugio, loro andavano a scalare sulle tre cime di Lavaredo. Così al Locatelli mio papà mi mostrava che sull’impressionante parete nord della cima grande corre una via, una via di Comici, nome che collegavo alla storica foto di quell’uomo con passamontagna bianco, occhi socchiusi e volto solcato dalle rughe.  Tanti anni dopo comincio ad arrampicare e l’obiettivo è ancora lì. Ne parlo con quegli amici che se fossero per magia catapultati su quel muro forse vivrebbero il peggiore degli incubi: non sanno di cosa parli ma capiscono che per me sia importante. Dicevo loro che arrivare sulla cengia anulare al termine della via significasse arrivare dove il mondo finisce. Se avessi lavorato sodo sul fisico e sulla mente insomma avrei avuto la possibilità di vedere ciò che sta dall’altra parte. Ma in verità, quando ogni salita finisce, il pensiero vola velocemente altrove, su altre vie e sulle impronte di altri eroi.

“Icio” Dall’Omo, in un video della serie “dolomitiche” di Alessandro Beber, mi ricorda il rimpianto che potrebbe provare chi arrampica nella consapevolezza che ci siano troppe montagne da scalare. Quel giovane alpinista potrebbe, mirando alle migliaia di vie, non accorgersi di ciò che lo circonda; dei profumi, dei colori, di ciò che veramente conta. Raccontando della Comici - Dimai voglio ricordarmi dell’estrema gioia che è stato sentire finalmente il freddo in un’estate tanto calda, dell’estrema paura che è stato il confrontarmi con un’esposizione tanto temuta poi smorzata dal suono del vento, dai campanacci delle mucche, dalle sfumature bluastre dei ghiaioni, dal sorriso di Batto ad ogni terrazzino.

Ho trovato il coraggio di pronunciare “Comici - Dimai” e aspetto una reazione dal mio compagno. Mi dice calmo che ce la facciamo: la via sembra essere ben chiodata, le condizioni sono buone.  Ho un po’ di tempo per prepararmi e prendere di nuovo confidenza con un’arrampicata che gonfia gli avambracci. D’estate allenarsi su roccia è difficile, stimolo così le dita appendendomi allo stipite della porta per un paio di sessioni al giorno, vado a far traversi in Napoleonica senza usare la magnesite e tengo le scarpette il più possibile. Nel rito di preparazione ad una via impegnativa limito anche il consumo di alcolici, cerco di dormire il più possibile ed evitare le ore piccole. Continuo ad immaginare la verticalità della nord e mi ci trovo spesso dentro, soprattutto mentre ascolto la musica dei pink floyd o prima di andare a dormire o quando sono solo. Mi ritrovo  appeso sul muro strapiombante che Emilio Comici è persino riuscito a salire in solitaria e non riesco a rilevare l’impatto emotivo che questa cosa avrà su di me.

Si parte mercoledì 03/08/22, portiamo Serena a Cortina dalla sorella e saliamo verso passo Tre Croci.

Ed eccole lì: più grandi di quanto mi ricordassi! In prossimità del rifugio Auronzo scendiamo dal furgone e notiamo che fa parecchio freddo. Il vento soffia da nord e l’aria è pulita come quella da temporale appena passato e in effetti il terreno è fradicio. Questo non è un buon segno.

I camini della Comici – Dimai sembrano bagnati anche dopo lunghi periodi di siccità, figuriamoci adesso. Ammetto che non mi è dispiaciuto pensare assieme a Batto ad eventuali alternative, rimandare insomma la via dei sogni: c’è la Comici alla punta Frida, c’è la Cassin alla Piccolissima, tutte esposte a Sud e tutte brevi (seppur intense). Si va a dormire con una minima incertezza sui piani dell’indomani e questo pare regalarmi un sonno piuttosto soddisfacente ma comunque a intermittenza.

Suona la sveglia alle 5.30 e mi metto in piedi come un soldato. Infilata la giacca a vento esco a verificare quante striature nere d’acqua hanno le pareti (che non sono poche ma il dado non è ancora tratto). Si diceva di andare sotto alle nord e decidere lì, il ché suona come qualcosa di effettivamente inutile: chi riuscirebbe a vedere i camini camminando sotto parete? Mentre costeggiamo invece le pareti sud notiamo che qui non ci sarebbe bisogno di pensarci troppo prima di attaccare. Superiamo l’asciutto spigolo giallo (che è veramente come Comici lo descrive in “alpinismo eroico”) e superiamo la piccolissima dove camminando seguiamo con gli occhi l’esordio di Riccardo Cassin in dolomiti. Poco prima di arrivare alla forcella Lavaredo ci fermano i due soli escursionisti presenti: “…ma dove andate ad arrampicarvi?” “guardi, sinceramente non lo sappiamo, andiamo a vedere com’è lì dietro” “ma di dove siete?” “siamo di Trieste, e lei?” “io di Napoli, prima volta sulle dolomiti! Ma come fate? a Trieste mica ci sono le montagne, dovrete pur tenervi in allenamento!” “Ma lei lo sa che Emilio Comici era triestino?” Batto, più intelligentemente, capisce sia difficile che Emilio Comici venga riconosciuto da chi è in tre cime per la prima volta, così si lancia in una breve descrizione delle nostre falesie, della val Rosandra, della Napoleonica, della cultura alpinistica del nostro territorio. In tutto questo marciamo avidamente verso la forcella e veniamo inseguiti dalla povera signora che magari si aspettava le dedicassimo una chiacchierata più soddisfacente. I nostri pensieri sono altrove.

Ci si saluta ormai poco sotto alla forcella e una volta salitici “sbababam” dice Batto.

Sbababam penso io. Non ci fa lo sconto la parete nord della grande che è davvero gigantesca, non si è resa più accogliente e docile per noi. Prendiamo una traccia tra le infinite ghiaie bluastre rese tali dall’ombra di muri alti più di 500 metri, costeggiamo la cima grande e notiamo che svetta direttamente dal ghiaione: sale verso il cielo con un angolo di 90 gradi rispetto al piatto margine delle ghiaie. Con gli occhi fuori dalle orbite e le orecchie basse alziamo lo sguardo dove corrono la diretta Hasse – Brandler, la via Iso – 2000 ed eccola lì, la Comici Dimai. Pare che ci siamo dimenticati di qualsiasi alternativa perché ci ritroviamo in silenzio a salire slegati lo zoccolo fino a dove un grosso spuntone sancisce l’obbligo di legarsi. Parto io e affronto un passaggio di IV+ che mi ha dato da pensare aumentando il senso di disagio. Batto sembra prendersi il suo tempo e in effetti ha ragione poiché dobbiamo attendere che la ragazza appesa alla fine del primo tiro parta e ci lasci via libera. Mi impressiona poter vedere tutte le cordate impegnate sulla linea, come se nessuna asperità, cengia o spuntone, possa proteggerci più in alto dal vuoto sotto i piedi.

Batto si sfrega le mani, parte per la fessura da dita e lo vedo tremare dal freddo. Trovo quasi ridicolo stringere tacche da VII grado in queste condizioni. Si esce a sinistra nel vuoto e si sale nuovamente in leggera diagonale destra. Tiriamo un cordino laddove la fessura si stringe a misura di tacca lisciata per poi proseguire su prese più semplici fino alla sosta appesa. Finalmente ci parliamo: “Come va?” dice Batto. “Non lo so, mi sento teso e tu?” “non lo so, ancora assonnato” “che dici?”. Alza la testa, il tiro successivo si sviluppa praticamente sulla nostra verticale. “Vai con la calma, valutiamo poi”.

Parto per il diedro giallo, terzo tiro ma secondo effettivo. Con stupenda arrampicata di VI grado (ricordo un passaggio effettivamente boulderoso, il resto di continuità non complessa) monto sul terrazzo rotto accolto da una ragazza spagnola pronta a partire per il tiro della lama staccata. Le vedo solo gli occhi perché ha il passamontagna tirato fin sopra al naso, cappuccio sopra al casco e si sfrega vigorosamente le mani. Mi sporgo per vedere Batto salire e noto in coda un ragazzo “rasta” che fino a quel punto, un paio di volte, aveva prodotto versi acuti tipo marmotta, verso non di piacere ma particolare espediente da lui utilizzato per segnalare l’arrivo in terrazzino. Batto arriva e ci fermiamo un momento ad aspettare che la ragazza sopra arrivi in sosta per gustarci al meglio la celebre lama staccata.

La parete nord è intonsa, nessuna cordata a sinistra dove corrono inimmaginabili direttissime e vie degne dei migliori artificialisti. Il rifugio Locatelli è al sole, in un concerto lontano di campanacci di mucche che pare un’ovazione per la nostra salita. Non invidio la bolgia laggiù, godo di questo freddo rigenerante che ho dimenticato vivendo ai tempi di una crisi (o forse un’apocalisse) climatica. Non che la montagna mi faccia dimenticare quanto opportuno sarebbe rallentare con la frenesia dei consumi: il freddo pare un artificio della montagna destinato a dissolversi. Quale migliore occasione per apprendere l’arte della lentezza?

Quando parto per la lama staccata posso constatare la bellezza del tiro, un capolavoro di movimenti alla Duelfer su appigli netti che non sembrano far parte di una via alpinistica ma disegnati lì dallo stesso apritore secondo il suo gusto artistico. Un tiro relativamente sprotetto di V+ e si giunge all’ultima sezione complessa della via caratterizzata da tre tiri sostenuti che ci hanno costretto più volte a ricorrere all’A0. L’ultimo tratto prima del bivacco Comici (su quella che dovrebbe essere una larga cengia) tocca a Batto. Mentre arrampica si ferma più volte, scuote la testa e ripete ad alta voce “capolavoro”. Come dargli torto?

La cengia non è ampia come ci si aspetta ed il tiro successivo di IV+ lo abbiamo trovato entrambi ridicolmente duro. Si segue nella seconda parte una sorta di lunghissimo diedro che muore sotto un grande tetto giallo dove il nostro cuore sicuramente perderà ancora un battito. Sopra quel tetto corre il lungo traverso che rappresenta l’ultima difficoltà psicologica (vista l’esposizione impressionante) e fisica (visto il V grado) della salita. Il diedro poi è bagnato, anzi, come dicono tante testimonianze è bagnato e viscido, spaventoso nonostante la sufficiente chiodatura. Proseguiamo in velocità perdendo le tracce della cordata dietro ma sentendone i versi di richiamo. Non facile è stato individuare la sosta alla base della sezione di diedro che conduce all’inizio del traverso; ad un certo punto è come il diedro si biforchi e conviene di certo affrontarlo sulla destra. Dalla sosta, due tiri comunque parecchio provanti (date le condizioni) portano alla grotta al margine destro del tetto. La cordata sopra di noi decide, con una certa dose di pelo sullo stomaco, di affrontare il traverso in basso, proprio sul labbro del tetto. Noi invece saliamo fin oltre alla strozzatura della conca naturale per poi traversare più in alto dove l’esposizione pare essere più “gentile”. Con un movimento complicato ci si abbassa seguendo una fettuccia bianca per giungere ad una cornice più semplice e ci si ferma su una sottile cengia che precipita fino ai ghiaioni delle tre cime. Due tiri ci separano dalla cengia anulare, due lunghezze stupende, spensierate, su roccia bianca e porosa. E’ Batto che mi porta in cima, o meglio, sulla stretta cengia arancione dove termina la via. Ancora non ci ricongiungiamo, proseguo verso la cima Ovest assicurato cercando di proteggere quei passaggi esposti che non concedono errori. Giungo ad un chiodo e recupero il mio compagno che come me è molto stanco, anzi di più considerando che il poveretto è da giorni che dorme pochissimo: non posso che provare per lui una gigantesca ammirazione. Nonostante forse non ce ne sarebbe stato bisogno, lui, che pur si è fatto la “cengia degli dèi” del Jof Fuart slegato, decide ora di proseguire in conserva, decisione saggia visto anche lo stato delle mie scarpacce d’avvicinamento. Ci sleghiamo per affrontare un passo di cengia che ci costringe a strisciare con il sedere sulla ghiaia e quindi arriviamo sul largo plateau che guarda verso l’Auronzo e che prosegue verso la cima piccola. Ce l’abbiamo fatta.

Non mi sento arrivato perché in effetti non siamo in vetta e sulla discesa non abbiamo le idee molto chiare. Nonostante quest’ultimo dettaglio e la stanchezza mi ritrovo a proporre la cima. Mi sento un po’ in colpa perché Batto è accondiscendente e io so che sarebbe meglio evitare per non prender pioggia. Sono le 16.30: se alle 17.00 non siamo in cima retro – front.

Sicuramente fuori via normale ma dove pare comunque battuto e sicuro, ci arrampichiamo fino alla croce.

Intonerei una canzone sapessi solo quale cantare. Come in quella di Guccini (non ricordo quale fosse), mi ritrovo a fare un inchino a quei pubblici lontani che prima mi pareva di sentire dentro la parete nord. Nessuno qui risponde al mio inchino, il silenzio è rotto solo dal vento e Batto se ne sta in piedi accanto a me afferrando la croce.

                                     Mauro Dall'Argine