Marocco - Taghia

TAGHIA 2019

PAROI DE LA CASCADE 

Via nuova BARAKA E BURATTINI

(E. Dreolin, M. Florit, S. Figliolia) Agosto 2019

250 m  6c (6b obbl.)  Attrezzata a fix

 

Scrivere non è mai stato il mio forte, a scuola non mi sono mai distinto per la produzione di un testo, ma il racconto che state per leggere ci tenevo fosse scritto da me.

Siamo partiti in otto per questa spedizione, ma credo di essere l'unico ad aver avuto un punto di vista diverso, rispetto al gruppo, su ciò che abbiamo vissuto, o almeno cercherò di raccontare la mia visione di questa esperienza.

Buona parte dei membri del team, con tanti più anni di esperienza rispetto a me, avevano già vissuto avventure di ogni genere, solo per citarne alcune: Patagonia, Kenya, Pakistan, Venezuela... di conseguenza erano consapevoli di ciò che ci aspettava.

Io, ventisettenne poco giramondo, alle prime esperienze, ho vissuto quelle valli, quelle lande, quella società nella quale ci siamo immersi, con occhi diversi, occhi vergini, occhi carichi di entusiasmo.

Premesso questo, possiamo iniziare insieme a ripercorrere questo viaggio: un'esperienza che mi ha dato tanto, un bagaglio che mi porterò dietro per tutta la vita.

 

Gennaio 2019

Tutto è iniziato durante una riunione nella sede del C.A.I. della Società Alpina delle Giulie di Trieste. Una classica riunione di inizio anno, pianificata per il Corpo Istruttori della scuola, la prima alla quale ho preso parte come istruttore qualificato.

Pensavo di stare partecipando alla tipica riunione che tratta   l'organizzazione dei corsi per l’intero anno, ma quasi alla fine il direttore della scuola, Silvio Silich, ha accennato al fatto che nel 2019 la scuola avrebbe compiuto 90 anni e che per questo avvenimento si sarebbe potuta organizzare una spedizione celebrativa in Marocco, precisamente a Taghia.

In un attimo ho iniziato a fantasticare, gli occhi brillavano. Incredibile, quella che mi si parava davanti sarebbe potuta essere una delle esperienze più importanti della mia vita, per giunta, in squadra con i migliori alpinisti di Trieste.

Mi sembrava di vivere un sogno…nella mia testa.

Avrebbero scelto anche me nel team? E se la spedizione fosse stata riservata solo ai veterani?

Con l'ansia di uno studente ai primi giorni di scuola, alzai la mano:

“La spedizione è rivolta a TUTTI gli istruttori della scuola?” con lo sguardo focalizzato sulle labbra del direttore, alla risposta “SI'” mi girai di colpo verso un altro neo istruttore, l'entusiasmo si poteva leggere chiaramente dai nostri occhi!

Impazienti di partire, avevamo ancora tanto da organizzare nei mesi che mancavano ad agosto.

La squadra era così composta: Silvio Silich, Stefano Zaleri (Calice), Mauro Florit, Stefano Figliolia, Eugenio Dreolin, Stefano Barelli, Giuliana Pagliari, Alessandra Barbieri.

Bisognava decidere gli obiettivi della spedizione: non avrebbe avuto senso percorrere tutti quei chilometri senza aver lasciato il segno del passaggio del gruppo triestino, così, Mauro Florit (accademico del C.A.I. e alpinista di fama nazionale con un esperienza da apritore da fare invidia a molti), essendo già stato nella stessa zona del Marocco e conoscendo più o meno la conformazione della vallata e delle pareti ad annesse, aveva preso in mano le redini della situazione ed organizzato una squadra con l'intento di aprire almeno una nuova via nella zona limitrofa a Taghia. Avevo notato subito il suo sguardo su di me, non capivo a cosa si riferisse, ma mi aveva messo in tensione, probabilmente avevo già realizzato di cosa si trattava, ma non osavo esserne sicuro...mi voleva nel gruppo di apertura, un grande onore per me.

Organizzammo le borse da spedizione: uno zaino a testa abbastanza grande, uno zaino piccolo e una borsa da 20 kg di peso ogni due persone. Con un totale di circa 150 kg di materiale in totale, siamo riusciti a ottimizzare lo spazio in modo corretto, utilizzando trucchi da prestigiatori degni di spettacoli in serate a Las Vegas.

 

Agosto, 25. Finalmente.

La mattina di quella domenica, abbiamo preso i nostri due furgoni direzione aeroporto di Treviso per salire sull'aereo che ci avrebbe portati alla prima meta: Marrakech.

Viaggio assolutamente tranquillo. In aeroporto, dopo il cambio valute e il sequestro del drone (N.B. Mai portare droni in Marocco!), siamo stati accolti da due personaggi autoctoni. Sistemati i bagagli, eravamo pronti a iniziare l'interminabile viaggio verso Zaula Ahanesal, circa 4 ore su una “strada” che solo con una fervida immaginazione si poteva definire tale. Un percorso tutto curve, su una strada praticamente sterrata, col buio, decisamente non un viaggio a 5 stelle, ma non ci importava.

Siamo arrivati di notte e del villaggio si poteva capire ben poco. Ci hanno portati in una casetta con delle stanzette da letto per gli ospiti e hanno preparato anche la cena, un piatto tipico: il Tajine. Era una pietanza che prende il nome dalla pentola stessa, Tajine appunto, una specie di mucchio di carne e verdure ammassate in questa padella fatta di terracotta con un coperchio piramidale, messa a cuocere sul fuoco vivo.

Passata la prima notte, con lo splendore del sole della mattina, mi sono reso conto realmente di dove ci eravamo cacciati: la sensazione era quella di vivere in un romanzo di fantasia dove dopo il risveglio ti ritrovi magicamente catapultato in un ambiente di 80 anni fa.

Era palese che il villaggio fosse povero e lontanissimo dalla civiltà moderna per come la intendiamo da noi. Le case erano tutte molto simili, delle scatole fatte di rocce disposte una sopra l'altra con una struttura portante in legno e i tetti ricoperti da uno strato in nylon impermeabile e....fango.

Dopo la colazione, sono arrivati due ragazzi con 4 asini che abbiamo caricato al massimo con gli zaini per iniziare il cammino verso la nostra meta finale: Taghia. Circa 2 ore a piedi in mezzo a splendide vallate.

Durante il cammino Mauro Florit ci ha raccontato come dieci anni prima, durante l'altra spedizione, il percorso che stavamo facendo fosse completamente diverso, noi lo abbiamo trovato parzialmente inagibile e con degli scavatori che lavoravano per la costruzione di una strada.

Salendo la montagna abbiamo potuto apprezzare tutte le anse e i bei canyon creati dal fiume, il nostro sentiero andava parallelamente ma in direzione opposta allo scorrere dell'acqua.

Se al primo villaggio sembrava di essere tornati indietro nel tempo di 80 anni, quando siamo arrivati a Taghia, seguiti dai nostri fedeli ronzini, eravamo tornati indietro di 200 anni nel giro di un batter di ciglia.

Il villaggio è auto sostenuto dalle proprie coltivazioni e dai propri greggi di capre, vi si respira un’atmosfera irreale a cui non ero preparato. È quasi totalmente estraniato dalla civiltà ed è molto distante dalla nostra realtà, solo la corrente elettrica è considerabile come “moderna” a Taghia.

Appena arrivati al villaggio mi si sono presentate davanti delle situazioni quasi incredibili: le casette dal tetto di fango erano più rade, l'acqua corrente era portata alle abitazioni da tubature fatiscenti che attingevano direttamente dal fiume, nessun sistema fognario (o comunque molto rudimentale) e immondizia. Da una casetta scendeva un ruscello di “acque grigie” e c'erano dei bambini intenti a lavorare tra galline che correvano e l’immondizia.  La cosa che mi ha lasciato a bocca aperta è stata la felicità che si vedeva sui volti nonostante le condizioni di vita. Penso di aver capito solo in quel momento il significato di “terzo mondo”, una situazione sociale che fa davvero riflettere.

Ci hanno accompagnati a una casa diversa dalle altre, che probabilmente apparteneva alla famiglia più benestante del villaggio, era più grande, aveva una struttura diversa dalle casette dal tetto di fango e ospitava una famiglia molto numerosa.

La nostra sistemazione comprendeva 2 camere da letto e un soggiorno, e oltre a noi ospitava anche una famiglia formata da cinque/sei mila esemplari fastidiosissimi di mosche, compagnia comprensibile dal momento che alla finestra c'erano pelli di capra messe ad essiccare.

Una vita a cui dovevamo abituarci/adattarci… però dalla terrazza davanti a noi, potevamo ammirare le vette che eravamo venuti a scalare. Lo spettacolo era mozzafiato e soprattutto a portata di mano con un avvicinamento irrisorio. In ogni direzione in cui potevo guardare si aprivano dei canyon con delle pareti fantastiche che in certi punti toccavano anche i 1000 metri d'altezza.

Eravamo arrivati nel primo pomeriggio e la voglia di esplorare era tanta. Ancora prima di partire avevo messo l'occhio su una via che mi sembrava interessante e che avevo deciso di fare. Così con Alessandra siamo andati a vedere l'attacco. Più camminavamo e più mi innamoravo dei paesaggi. A sinistra montagne altissime con una roccia rossastra che non aspettava altro che essere scalata, un canyon profondo un centinaio di metri alla nostra destra, il rumore dell'acqua che si infrangeva sulle pareti calcaree, ponti berberi    incredibilmente posizionati in punti assurdi...  Eravamo in un sogno!

È arrivata l'ora di cena in un lampo e siamo tornati alla base.

Non vi tedierò raccontando dei nostri pasti in quanto lì non esiste modo di avere una dieta varia: a pranzo Tajine con le uova a cena Tajine con capra e verdure o cous cous.

Anche l'intrattenimento serale era abbastanza monotono, dopotutto eravamo in 8 chiusi in 4 mura. La routine dopo cena era “ciacole” e soprattutto giocare a carte per passare il tempo, ma contro Calice ogni ambizione di vittoria era vana.

 

Veniamo alla parte tecnica.

L'apertura di una via non richiede la presenza di molte persone, quindi si è deciso che solo in tre, Florit, Figliolia e Dreolin, erano necessari al compito.

Muniti solo di 50 spit e un trapano, che a primo parere di Florit poteva essere considerato un giocattolo della Meccano, avevamo necessità di trovare una parete non troppo alta (circa 300m) e di difficoltà non troppo elevata. La Paroi de la Cascade (parete della cascata) sembrava fare al caso nostro e avere spazio sufficiente per una linea sulla sua estrema destra.

Gli altri, divisi in vari gruppetti, sarebbero andati a ripetere delle vie nella valle opposta alla parete dove dovevamo andare noi.

Entusiasta per l'avventura del giorno seguente mi sono imbozzolato nel sacco lenzuolo. Le mosche sul viso erano il nemico numero 2 del nostro sonno. Il numero 1, ben più grave, era il russare di alcuni membri del nostro gruppo. Due titani che mi hanno portato varie notti ad andare a dormire in soggiorno, lato positivo: ero già pronto per la colazione.

 

Sveglia alle 6.30 del mattino, colazione abbondante e moralmente carichi come per andare ad un concerto rock, ci prepariamo. La quantità di materiale da portare verso la parete era molta, infatti tutti e tre avevamo degli zaini molto pesanti, con noi sono venuti anche Alessandra e Calice per aiutarci con il carico, loro poi, avrebbero ripetuto una via in quel settore.

Davanti a noi ci aspettavano circa 600m di dislivello, sulla guida segnata a 40min di cammino dalla partenza. L'autore della guida o era un velocista jamaicano, oppure deve aver dimenticato di scrivere 1h davanti ai 40min, d'altra parte noi abbiamo impiegato un'ora e mezza per salire fino all'attacco.

Salita abbastanza tortuosa, prima su un pendio con una chiara traccia battuta dai pastori del luogo, poi per il gretto asciutto del rio nato dalla cascata che si forma nelle giornate piovose.

Arrivati sotto la parete, a schiena scarica, abbiamo cominciato a cercare una possibile linea.

Dal mio punto di vista eravamo difronte ad un fallimento: in quanto nella zona dove volevamo salire c'erano vie che non erano presenti sulla guida e l'unico lembo di roccia libero era totalmente liscio. Ero già pronto a rifare lo zaino quando Mauro con il suo occhio esperto disse: - saliamo da qui! -.

Io, abbastanza perplesso e incredulo, lo prendo in sicura e, molto curioso, osservo come una via va aperta.

La prima lunghezza si sviluppava su una placca abbastanza liscia con piccole gocce, la difficoltà stava nei primi 3 spit, fino ad un leggero strapiombo. Poi ben più semplice.

Circa a trequarti del tiro Stefano dà il cambio a Mauro e arriva fino alla prima sosta su un albero.

Primo tiro della via: 6b+. Il sole era cocente e dovevamo darci il cambio.

Vedere Mauro che apriva il primo tiro di quella via mi ha fatto provare emozioni uniche, era per me sperimentare una nuova concezione dell'arrampicata. Non si trattava più di mero sforzo fisico, l'arrampicata si stava tramutando in arte, e noi in artisti.   Non vedevo l'ora di essere al posto suo nei tiri che poi sarebbero seguiti.

Dalla sosta del primo tiro un semplice trasferimento verso sinistra, poi sosta su uno spit e un chiodo. Da lì si intravedeva una possibile linea che continuava su un diedrino per poi spostarsi dietro ad uno spigolo a sinistra e poi l'ignoto.

Era arrivato il mio momento.

La sensazione che provavo era particolare. Solitamente difronte a nuove esperienze, a nuove sfide personali, la tensione è tanta e la mente non lavora a pieno regime. In questo caso non era così.  Mi sentivo a mio agio e oltretutto conscio di ogni mia azione. Sentivo una sicurezza particolare, come se quel “lavoro” fosse il mio pane.

Solitamente in questi casi tanti fattori mettono alla prova la parte psicologica: l'altezza, la distanza dall'ultimo spit, lo stare appeso sui cliff hanger, il meteo... ma a me tutto ciò non toccava, ogni volta durante la battitura dello spit nella parete la mia mente era già focalizzata sulla prossima protezione da posizionare.

Superato il diedro, particolarmente impegnativo in quanto aveva una presa verticale nascosta, mi sono ritrovato subito oltre allo spigolo. Una volta finiti gli spit sul mio imbrago, sono tornato giù per dare il cambio a Stefano.

Mauro, a mio parere, decise di entrare in modalità “largo ai giovani” e per buona parte della via ci ha lasciato piena libertà, sempre però sotto la sua severa direzione.

Terzo tiro, 55m, 9 spit usati, difficoltà 6b obb. Passaggio di 6c.

Il trapano a quel punto faceva ancora il suo sporco dovere e, contro ogni pronostico, si è rivelato un buon acquisto.

Quarto tiro, facile muretto verticale di 4° grado e altro trasferimento su una grande cengia, il tutto per circa una ventina di metri.

La via si presenta con una logistica molto “semplice” dal momento che continuando a camminare sulla cengia verso il margine destro della parete, si arriva in un punto dove è possibile effettuare la discesa a piedi. Vista l'ora tarda, avevamo deciso di tornare indietro lasciando tutto il materiale in una piccola nicchia a riparo da animali e intemperie.

In discesa, scarichi e ben più veloci, abbiamo impiegato circa 40 minuti.

Cena a base di Tajine e a letto presto.

 

Secondo giorno sulla parete.

Il secondo giorno salire senza materiale è stato molto più agevole, comunque non veloce come la guida suggeriva.

Senza dover ripercorrere l'intera via per arrivare al punto dove ci eravamo interrotti il giorno prima, abbiamo avuto l'occasione di procedere con il lavoro in tempi record.

Ovviamente l'imprevisto si nascondeva dietro l'angolo.

Ancora non lo sapevamo ma, dal secondo giorno fino al termine della nostra permanenza, sarebbe piovuto a dirotto per almeno un paio d'ore e in fasce orarie totalmente diverse dalle previsioni meteo, frenando drasticamente l'ascesa.

Ma ora ritorniamo alla cengia, dove ci aspettava un rimonto di III/IV grado protetto con uno spit e un altro trasferimento verso la verticalità della parete. Circa 30 metri.

Sesto tiro, simile a quello precedente. Anche qui un muro a pance di circa 10 metri, dove abbiamo protetto con 3 spit e ancora una rampa molto semplice che continua verso sinistra terminando sulla sosta (un chiodo e uno spit).

Da qui la faccenda si complica: Florit alla guida.

Settimo tiro, forse il più bello della via, molto vario, grado 6c, 25m circa.

La partenza per la settima lunghezza è parecchio impegnativa, ci sono voluti un buon numero di tentativi per partire.

Pochi piedi, passaggi obbligati, il tiro si fa interessante. Posti i primi 3 spit nei primi 10 metri verticali, la linea suggeriva un traverso verso destra puntando in direzione di una nicchia perfetta per fare una sosta abbastanza comoda. Il traverso si presenta molto tecnico su prese piccole e a volte sporche. In sosta avevamo deciso all’unanimità che quello fosse il tiro più difficile della via.

 

Alzando lo sguardo sopra le nostre teste ecco che si apre una placca a gocce e rigole che sembrava un sogno, pareva che la roccia ci parlasse suggerendoci la linea da seguire. La via stava venendo proprio bene.

Tocca di nuovo a me, circa 30 metri o poco più ci separavano dalla vetta, ma nel momento in cui il mio imbrago era carico per iniziare la salita, ecco che comincia a tuonare e piovere. Ci caliamo in velocità e ci ripariamo sotto un tettino alla base del settimo tiro. Per circa un'oretta e mezza siamo stati fermi ad aspettare che il maltempo passasse, chiacchierando del più e del meno e facendoci travolgere dai milioni di aneddoti che il vecchio Florit aveva da offrirci.

La pioggia continuava a scendere impetuosa e non accennava a fermarsi. Dal punto in cui eravamo vedevamo il fiume che scorreva tra le case di Taghia, carico di materiale fangoso, e si vedeva chiaramente l'ingrossamento delle acque. Per fortuna tra le due rive era presente un ponte.

Lasciamo come al solito il materiale al riparo sulla cengia e cominciamo l'umida discesa verso casa.

Solito Tajine per cena, thè alla menta e via a letto, per me la panca del soggiorno pur di evitare assordanti russate.

Ci svegliamo con una splendida giornata, dal terrazzo vediamo la nostra parete totalmente al sole ancora un po' macchiata da chiazze di acqua qua e là. Solita ora e mezza per salire. Io e Stefano con due zainetti carichi di viveri e ancora un po' di materiale, mentre Mauro, come “Heidi sui verdi pascoli”, saltellava sul sentiero totalmente scarico con la scusa “mi duole il ginocchio”. Ingoiamo il rospo, prendiamo il materiale e andiamo verso la salita per iniziare l'ultimo giorno di cantiere.

Dopo aver ripercorso il sesto e il settimo tiro eravamo tornati alla sosta dove dovevo partire io il giorno prima.

Anche questa lunghezza in partenza si presenta abbastanza ostica e alquanto difficile da proteggere con i cliff che utilizzavo per avere libere le mani e trapanare la roccia.

La prima parte del tiro, forse la più complessa, si sviluppa su una parte verticale ricca di venature con prese molto piccole e piedi abbastanza sporchi. A seguire l'aggiro di un tetto alla sinistra e l'inizio di una placca con poche prese che continua verso la cima della parete. Subito prima della cima, un rimonto abbastanza semplice su appigli buoni.

L'essere arrivato in cima all'apertura della mia prima via è stato per me un momento indimenticabile. Spesso mi capita di rivivere nei pensieri l'ultimo passaggio del tiro e l'arrivo in vetta. In quell'istante, un tripudio di emozioni, tanto che preso dal momento sbagliai la collocazione dei 2 spit della sosta finale che sarebbero stati fondamentali per dei piccoli miglioramenti della via che ci eravamo prefissati di fare.

Come ormai di consueto sapevamo che il maltempo si nascondeva dietro l'angolo e per apportare le piccole modifiche alla via la discesa fu rapida.

Sulla discesa, abbiamo tolto tutti i chiodi e li abbiamo sostituiti con altri spit.

Totale di spit utilizzati per la via: 50, tutti quelli che avevamo portato.

Scendendo il maltempo ci aveva ormai raggiunti e con gli zaini belli carichi sta volta siamo corsi sotto ad una volta all'asciutto, ai piedi della cascata.

Missione compiuta.

Da quel momento in poi qualunque cosa fosse successa, sulla mia faccia c'era stampato un sorriso a 32 denti e, anche se il giorno seguente ha piovuto incessantemente per tutto il giorno, io ero felice!

Dopo un giorno di pausa, ecco che toccava anche a noi apritori divertirci su qualche via già aperta nella valle.

Mauro, Alessandra, Calice ed io c'eravamo insinuati nella gola che si forma tra il monte Ifrig e il monte Taoujdad alla ricerca di due belle vie di grado simile che salivano parallele sulla parete dell'Ifrig (salendo il fiume la parete sinistra). Le vie, a circa mezz'oretta dal paese, presentano un bellissimo avvicinamento con svariati sali e scendi sul gretto del fiume e, in alcuni punti, dei ponti formati da due tronchi fissati a terra che permettono un passaggio facilitato. La zona era tanto bella quanto letale. I segni lasciati dalle piene sulle pareti laterali al canyon suggerivano che, in caso di pioggia, la discesa dalla via fosse VIETATA. Le piene in queste zone sono molto rapide.

Alessandra e Calice partono su L'Allumeur de Reves Berberes 320m 6b+ (6a+) mentre io e Mauro partiamo su Canyon Apache, via di 300m 6c (6b).

La via è spettacolare, molto varia e con una roccia splendida un godimento dall'inizio al... penultimo tiro, dove come al solito la pioggia ci ha colto di sorpresa e l'ultimo tiro si è trasformato in via ferrata.

Arrivati in cima, una volta messa la giacca impermeabile, la pioggia ovviamente era finita.

Dopo due chiacchiere e qualche foto abbiamo preso la via del ritorno, anch'essa molto piacevole, seguendo ponti berberi e cenge per la discesa.

 

I giorni sono passati in fretta, le scalate nella valle incredibili e la vita nel villaggio, da un certo punto di vista, ci ricaricava l'anima. Gli abitanti di Taghia sono persone fantastiche, vivono ad un ritmo che per noi “turisti” è sconosciuto e, per certi versi, da me molto invidiato.

Ho visto bambini che giocavano insieme con una semplice roccia, contadini che chiacchieravano la sera davanti ad una tazza di thè alla menta, pastori che macellavano le capre per dare da mangiare ai propri cari e tutti senza il cellulare in mano, senza frenesia, senza necessità di stare collegati con amici-non amici- solo per sentirsi parte di un sistema che ci viene imposto... Una visione che ha creato in me una sensazione di libertà e pace che sapevo sarebbe svanita una volta tornati a Marrakech. Paradossalmente, una situazione che solo io cercavo di vivere a pieno, dal momento che il resto del gruppo era rapito dalla tecnologia, dovendo, oltretutto, scroccare la connessione di un ragazzo del luogo.

                                                                                        Eugenio Dreolin

 

In conclusione, vorrei ringraziare il CAI SAG che mi ha permesso di partecipare a questa avventura, sperando sia la prima di una lunga serie.

Otto giorni, intensi e molto produttivi. L'intero gruppo si è dato da fare portando a casa un'attività sostanziosa. Queste sono le vie che abbiamo ripetuto:

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     JBEL OUJDAD

     -Secteur de Sources

 

      IFRIG

      -Paroi de Sources

      -Paroi de L'Akka N'Tafrawt

 

       JBEL TAOUJDAD

      -Face ouest

 

      PAROI DE LA CASCADE

      -Ajouy Nomazre

 

    Via aperta da noi: